In tema di protezione umanitaria, la ritenuta non credibilità del racconto (e della vicenda personale del richiedente protezione internazionale) non è di ostacolo al riconoscimento del beneficio richiesto, dovendosi comunque apprezzare le conseguenze del rimpatrio sulla base delle condizioni generali del Paese di origine correlate alla sua posizione individuale (Cass. Civile, n. 41778/2021).
L’art. 5, co. 6, d.lgs. n. 286/1998 va “collegata” ai diritti fondamentali che l’alimentano, essendo le relative basi normative “a compasso largo”, perché l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani, incluso il diritto al lavoro (art.41 Cost.), e di radicarne l’attuazione (SS.UU. Civili n.29459/2019).
Va cassato il decreto che, nel procedere alla valutazione dei fattori di integrazione lavorativa, sussistenti (seppure nella forma dell’apprendistato e del lavoro a tempo determinato, del resto attuale consueto canale di accesso al mercato del lavoro) e dei dedotti fattori di vulnerabilità (inclusa la giovane età al momento dell’espatrio, l’assenza di legami familiari nel paese di origine, le violenze e torture subite in Libia), non si conformi ai principi di comparazione attenuata attualmente consolidatisi e di rilevanza della sproporzione tra i contesti di vita nel Paese di origine ed in Europa.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n.29485 del 10\10\2022